Perché
dovrebbero esserci barriere architettoniche in un edificio di nuova costruzione?
Esiste una vecchia legge - la 13 del 1989 - sul superamento e l'eliminazione delle barriere negli stabili privati, il
suo regolamento di attuazione - il decreto ministeriale 236 del 1989 - detta
disposizioni tecniche da quasi trent'anni e quindi di ostacoli in un condominio
appena costruito non dovrebbero esisterne. Eppure…
Eppure basta fare mente locale ad una scala comune
qualunque (no, evitiamo querele: qualcuno avrà pur realizzato una scala comune
perfettamente rispondente al d.m. 236/89, siamo noi che non l’abbiamo mai vista
in un condominio) e pensare se possegga corrimano a entrambi i lati o se presenti
fasce percepibili per non vedenti a inizio e fine di ogni rampa. Non li
possiede, non le presenta (quasi mai, altra precisazione antiquerele). Perché una scala che offre barriere eliminate
secondo il decreto è una scala brutta, una scala “da ospedale”, e costruttori,
progettisti e direttori dei lavori una scala da ospedale in un edificio a
civile abitazione non la vogliono realizzare.
In un nuovo condominio è abbastanza facile
individuare le barriere architettoniche che persistono nonostante le leggi
vigenti. Per esempio, negli edifici realizzati da quando è applicabile il d.m.
236/89, sono “barriere”:
-
i parapetti attraversabili da una sfera diametro 10 cm
-
i corrimano di lunghezza insufficiente
-
le pavimentazioni e le scale non antisdrucciolevoli
-
i dislivelli superati con gradini o rampe inclinate, ma senza
variazioni cromatiche
-
gli zerbini non incassati
-
le rampe carrabili prive di corrimano.
Quando il costruttore è ancora reperibile, vale la
pena provare la contestazione: spesso molte sistemazioni vengono effettuate. Ma
non sempre.
La prima risposta che si ottiene, in caso di
resistenza alle contestazioni, riguarda la non applicabilità del d.m. 236/89 agli
edifici privati o – come variante più articolata – la non applicabilità alle
parti comuni condominiali in assenza di condòmini con disabilità. In questi
casi è molto facile opporre il testo di legge, nel quale non c’è alcun riferimento alla presenza o meno di
persone con disabilità: si deve costruire bene per vivere meglio tutti. Letterale dal d.m. 236/1989:
“Le norme contenute nel presente decreto si applicano:
1) agli edifici privati di nuova
costruzione (…) Per parti comuni dell'edificio si intendono quelle unità
ambientali che servono o che connettono funzionalmente più unità immobiliari. (…)
In relazione alle finalità delle presenti norme si considerano tre livelli di
qualità dello spazio costruito. L'accessibilità esprime il più alto livello in
quanto ne consente la totale fruizione nell'immediato. (…) L'accessibilità deve essere garantita per quanto riguarda: a) gli
spazi esterni; (…) b) le parti comuni.”
La
seconda risposta, di norma piccata e con pretesa di infallibilità, è relativa
alla “approvazione” che l’ufficio tecnico comunale avrebbe dato al progetto
intero, come se i tecnici di un comune anche piccolo avessero la possibilità di
sindacare sui colori dei pavimenti o sulla lunghezza di un corrimano
(particolari peraltro sempre assenti dai progetti protocollati). In realtà,
dice lo stesso d.m. 236/89, “Il Sindaco,
nel rilasciare la licenza di abitabilità o di agibilità (…) deve accertare che
le opere siano state realizzate nel rispetto della legge. A tal fine egli può
richiedere al proprietario dell'immobile una dichiarazione resa sotto forma di
perizia giurata redatta da un tecnico abilitato.” Per questo motivo
l’agibilità viene dichiarata di norma dal direttore dei lavori, spesso anche
progettista, che – sostanzialmente indifferente ai risvolti penali di un falso ideologico
(art.481 c.p.) – dichiara il rispetto delle normative sull’abbattimento delle
barriere architettoniche senza accertare fino in fondo quanto realizzato. E
nessuno, o quasi, verifica quanto dichiarato, perché i servizi di prevenzione
delle ASL non hanno competenza in questo settore (le dotazioni degli ambienti
per la sicurezza nei luoghi di lavoro sono differenti rispetto al d.m. 236/89)
e i comuni non hanno personale per controllare tutti i progetti, né entrano nel
merito in caso di eventuali contestazioni.
Invece
gli avvocati di un terzo danneggiato, per esempio a seguito di una caduta su
una scala che possiamo facilmente definire irregolare, non ci mettono molto a
leggere il contenuto del regolamento di attuazione della legge 13/89 ed a
contestarne le violazioni, con molte probabilità di vittoria in caso di vertenza
legale. E non conta nulla se il comune sul marciapiede, l’edificio di fronte,
l’ospedale pubblico nelle vicinanze, non rispettano palesemente le previsioni
del decreto 236/89: il condominio di recente costruzione le cui parti comuni
presentano barriere architettoniche è esposto a facili e a volte importanti
richieste di risarcimento.
Chiudiamo
con la definizione di legge di “barriere architettoniche”, perché non si pensi
che stiamo parlando solo di rampe per carrozzine o di corrimano più lunghi del
solito:
“Per barriere architettoniche si
intendono:
a)
gli ostacoli fisici che sono fonte di disagio per la
mobilità di chiunque ed in
particolare di coloro che, per qualsiasi causa, hanno una capacità motoria
ridotta o impedita in forma permanente o temporanea;
b)
gli ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la
comoda e sicura utilizzazione di parti, attrezzature o componenti;
c)
la mancanza di accorgimenti e segnalazioni che
permettono l'orientamento e la riconoscibilità dei luoghi e delle fonti di
pericolo per chiunque e in
particolare per i non vedenti, per gli ipovedenti e per i sordi.”
In
caso di assunzione di incarico da amministratore di un condominio di recente
costruzione, un sopralluogo mirato a verificare il rispetto del d.m. 236/89 è
decisamente opportuno, innanzitutto nell’interesse dei condòmini. Si tratta di (far)
rispettare un vecchio decreto scritto in lingua italiana e facilmente
riscontrabile anche a posteriori. Siamo sicuri che sia così difficile?